
I fatti
Il 20 giugno scorso, il diciottenne Orlando Merenda ha deciso di farla finita gettandosi sotto un treno. Un’altra vittima di bullismo e probabilmente l’ennesima di cyberbullismo, mi verrebbe da dire, forse correlata anche a una qualche forma di ricatto on line, a sfondo sessuale, mi verrebbe altresì da ipotizzare. Tuttavia è ancora presto per dirlo, dato che le indagini sono state avvìate da poco.
I giornali raccontano che il ragazzo era vessato perché gay, che di recente aveva confidato agli amici di sentirsi minacciato e che qualcuno metteva in discussione la sua omosessualità, mentre al contempo, a causa di quella era denigrato e ridicolizzato.
Gli amici riferiscono che ultimamente si era chiuso in sé stesso ed appariva fortemente turbato.
Poco prima del tragico epilogo, Orlando aveva postato su Instagram, il social network dove amava passare gran parte del suo tempo, la citazione: “Il problema delle menti chiuse è che hanno la bocca aperta”. Il suo post anticiperà di poco quell’agghiacciante “Morte ai gay”, apparso sul suo profilo, fra i messaggi di cordoglio, subito dopo la sua scomparsa.

Orlando Merenda e Andrea Spezzacatena: la percezione del diverso e l’odio che non si ferma.
La vicenda di Orlando Merenda mi ha fatto immediatamente pensare ad Andrea Spezzacatena, altra giovanissima vita spezzata dal cyberbullismo. Andrea era uno studente liceale di Roma che nel novembre del 2012 fu trovato impiccato all’interno della propria abitazione. Solo in un secondo momento, la famiglia di Andrea scoprì che egli era stato vittima sui social di brutali attacchi alla sua persona e accusato di essere gay. Egli era conosciuto come «il ragazzo dai pantaloni rosa».
Il motivo per cui quanto accaduto ad Orlando Merenda mi ha fatto tornare in mente la storia di Andrea Spezzacatena è legata alle osservazioni che avevo letto anni fa sull’hate speech omofobico on line formulate dagli accademici Ian Rivers e Vittorio Lingiardi. Entrambi gli studiosi avevano infatti riferito come alcune precedenti ricerche sul bullismo omofobico avessero rivelato che in realtà le vittime potevano essere non solo i giovani LGTB, ma tutti coloro che fossero suscettibili di essere semplicemente percepiti come non conformi alle norme e agli stereotipi di genere correnti, benché non si identificassero come lesbiche, gay, bisessuali o transgender. Pertanto, il bullismo omofobico e transfobico può sì essere definito una forma di violenza di genere» ma va ben al di là dell’acclarata omosessualità di un soggetto, venendo altresì in rilievo la semplice percezione di non conformità a un certo cliché o comune sentire. Si tratta di una connotazione che allora può ben applicarsi anche in altri contesti meno noti e, per così dire, inquadrabili. Tant’è vero che ad Andrea Spezzacatena è bastato scegliere d’indossare ugualmente dei pantaloni scoloriti e diventati per sbaglio rosa durante un bucato, per diventare bersaglio on line di attacchi d’odio omofobi mortali.
Un altro elemento su cui mi capita spesso di riflettere è sicuramente quello legato a come le manifestazioni d’odio sul Web permangano ed anzi proseguano con un certo vigore e crudeltà anche dopo il suicidio delle vittime di cyberbullismo. Nella maggioranza dei casi l’hate speech non si ferma davanti alla morte del bullizzato, sul quale gli haters, estranei, infieriscono e/o continuano a infierire con commenti atroci e disumani vòlti a ridicolizzare e colpevolizzare ulteriormente la vittima, per il gesto estremo compiuto, ingaggiando talvolta quella che sembra diventare una vera e propria gara di commenti d’odio fra orchi.
L’odio organizzato: lo stalking on line by proxy e i gruppi di cyberstalking.
Al riguardo mi pare utile ricordare come in Rete esistano due fenomeni espressione diretta di tale tipo di azioni. Si tratta dello stalking by proxy e dei gruppi di cyberstalking. Internet, infatti, potendo offrire connessioni teoricamente infinite fa sì che haters e cybercriminali possano realizzare e sfruttare due specifiche forme di collegamenti per perseguitare le loro vittime. Si tratta per l’appunto dello stalking by proxy e dei gruppi finalizzati alla pratica dello stalking on line. Ciò rileva in quanto il cyberbullismo integra, forse prima fra tutte fra le fattispecie delittuose che per il suo tramite vanno configurandosi, quella dello stalking.
In particolare, con lo stalking by proxy, cioè lo stalking attuato a mezzo terzi o per procura, i criminali reclutano, convincono, inducono estranei, al fine di farsi supportare nel perseguitare la vittima; attraverso i gruppi di cyberstalking, invece, ampi e coesi gruppi di utenti sono coinvolti in forme di violenze verbali e in campagne d’odio on line. In queste reti si scatenano vere e proprie competizioni fra chi pubblica i messaggi più denigratori contro il bersaglio. Si parla, in questi casi, di attacchi di cyber mobs o dogpiling.
Insomma, nell’epoca della tanto sbandierata libertà assoluta di fare, dire ed essere quello che si vuole, siamo invece sempre più schiavi delle apparenze e di forme di conformismo e odio assai subdoli, conclamati, condivisi e metastatizzanti. Per tale ragione, il fattore umano resta il principale anello della catena su cui lavorare, l’anello da rafforzare, in un appuntamento con la sicurezza sempre più urgente e non più rinviabile.